LA TERAPIA SACRALE DELL’ERNIA NEL CERIMONIALE DI MAGIA ARBOREA A SAN GIOVANNI DELL’ACQUA

Di Giuseppe Bonifazio

Con il presente lavoro si vuole dare una prima sintetica divulgazione di una ricerca più ampia incentrata su un cerimoniale di magia arborea, il solo attualmente accertato nel Lazio e inedito, che è rimasto vivo per secoli nelle pieghe nascoste dell’alta valle dell’Aniene. (1)

A metà strada tra Subiaco e Jenne si incontra in un boscoso pendio la piccola cappella di San Giovanni Battista, più nota nella zona con il nome di san Giovanni dell’Acqua, uno dei dodici cenobi fondati da S. Benedetto, al quale la tradizione attribuisce il miracolo di aver fatto sgorgare la vicina sorgente per le esigenze della comunità monastica. (2) Qui il pomeriggio di ogni 23 giugno, vigilia della festa di San Giovanni, si recano diversi fedeli provenienti da Subiaco, da Arcinazzo Romano e, in misura minore, da Jenne, per far visita al Santo e per partecipare alla processione notturna che termina con la celebrazione della Santa Messa.

Il luogo e la ricorrenza religiosa non desterebbero tutta la nostra attenzione, se fino a pochi decenni or sono non si fosse praticato proprio in questo giorno il rituale della “passata” dei bambini erniosi, uno dei più antichi e diffusi nell’area mediterranea ed europea, con diverse varianti e modalità, ma con un unico denominatore comune e un unico fine. I bambini affetti da ernia infantile, identificata nel prolasso dello scroto o in alcune forme di ernia inguinale connesse comunque con l’area genitale, venivano portati in questo luogo e per guarire, venivano “passati” attraverso una fenditura ricavata  in un albero di quercia. Una persona preposta, secondo il numero delle richieste, tagliava in senso verticale il fusto di un querciolo e ne ricavava un’apertura sufficiente all’introduzione dell’ernioso. Per mantenere divaricate le due parti vi inseriva di traverso un piccolo asse. I genitori dei bambini con i disturbi di ernia, spesso giunti a piedi scalzi, già durante la processione manifestavano ansia e impazienza e con forza invocavano il Battista cantando:

                                                                  “Evviva San Giovanni

                                                                  che è fratello a Dio

                                                                  la grazia che chiedo io

                                                                  tu non me la negà”

 

oppure (ultimo verso) “tu me l’hai da fa”, come in un’altra versione raccolta a Vallepietra. (3) L’antica canzone popolare, modificata nel dopoguerra con strofe più canoniche, bene esprimeva questo modo diretto e concreto di rapportarsi con la potenza, proprio dell’animo della nostra gente.

Allo scoccare della mezzanotte si sentivano risuonare nel bosco voci eccitate che gridavano: “alla cercia, alla cercia”, o “alle pampane, alle pampane” e ogni genitore si recava con un conoscente, prossimo compare o comare, presso l’alberello aperto ad arco. Posti uno di fronte all’altro passavano orizzontalmente il bambino nudo attraverso la pianta recitando la formula: “Tée compà, te so datu nu figliu paganu e mi ju si fattu cristianu”. L’altro rispondeva: “Tée commà, mi si datu nu figliu paganu e ti ju so fattu cristianu”. Seguiva la recitazione del Credo. Gli operatori, per suggellare il nuovo rapporto di parentela per comparatico extraliturgico, dicevano: “Compare a San Giuanni, bacimmoci le mani, le mani ci bacimmo e compari ci facimmo”. Il vincolo che si era così instaurato durava tutta la vita e aveva grandissima importanza, tanto che il compare di San Giovanni era equiparato a quelli del Battesimo, Comunione e Cresima. A conclusione del rito si procedeva a rinsaldare le due parti tagliate dell’albero con una legatura e “la grazia” della guarigione avveniva solo se la pianta tornava a vivere, a germogliare; in caso si fosse seccata bisognava ripetere l’intera operazione. Naturalmente l’attesa del responso durava dei mesi e per l’eventuale ripetizione bisognava aspettare l’anno successivo.

Fin qui in grandi linee la terapia magico-religiosa, ma la tradizione comprendeva anche il pellegrinaggio a piedi, l’incubatio, il prelievo dell’acqua della sorgente (anche per scopi curativi) e persino il bagno integrale o parziale prima della passata, perché “chella era acqua santa, l’acqua de San Giuanni”.

Nella cappella si conservano degli ex voto che attestano il ringraziamento per la sparizione del male e fino a prima dei restauri effettuati il 1990 era appeso anche un cinto di gomma, che inequivocabilmente indicava il tipo di grazia ricevuta. I soggetti degli ex voto sono tutti bambini maschi, con un’età che varia da alcuni mesi ad alcuni anni e, secondo le informazioni raccolte, tutti con una lesione già in atto. Anche qui, pur rappresentando delle eccezioni, vi sono stati casi di bambine e perfino signorine “passate” per la fuoriuscita di un viscere, così come non si possono escludere interventi a scopo preventivo, per esorcizzare il male futuro.

Per ogni approfondimento al riguardo si rimanda al testo monografico di A. M. Di Nola, (4) del quale viene condivisa la linea interpretativa, come la più acuta e rispondente a tutto il complesso cerimoniale e al mondo cultuale di origine contadina. Anzitutto va detto che il rito è documentato in epoca precristiana addirittura presso gli Ittiti oltre il 1200 A. C. Presso i romani, con la descrizione che ne fa M. P. Catone nel suo “De Agricoltura”, esso aveva lo scopo di curare l’impotenza maschile, messa a repentaglio dalla malformazione scrotale e di restituire le capacità del vigore sessuale e della procreazione. Per questo era destinato quasi esclusivamente ai bambini che diventavano erniosi per lo sforzo del parto e, in termini dialettali, si diceva “ce sa calato ju pallone”.

Il rituale, come risulta anche dalla formula della “passata”, risiede “nel simbolismo di nascita nuova e di rigenerazione” con “la stimolazione di un rapporto simpatico-animistico fra pianta e uomo, nel quale rapporto il nucleo di soluzione del male sta proprio nella funzione attiva e vivente della pianta”. (5) L’esito positivo è quindi strettamente legato alla vita dell’albero “che gli appartiene”. L’idea di rinascita è ben presente tra gli stessi compari che sono consapevoli di attuare un rinnovato Battesimo; non a caso abbiamo il culto del Battista, (“se dicevano il credo come quando se stanno a battezzà”, mi ha riferito una donna con il figlio graziato) e la stessa gestualità della “passata” allude ad un nuovo parto. Tuttavia alquanto ambiguo si presenta il rapporto con San Giovanni, che è, sì,  “il padrone dell’ernia” ma “se si devoto” o “religioso” e “ci’hai ‘na cercia ‘n campagna, la spacchi e a mezzanotte ju passi alla cercia”. Il localismo non appare allora così vincolante. Infatti quando i Benedettini alla fine degli anni ‘50 si imposero per sopprimere il rito, secondo una testimonianza che mi è stata fatta ricorrendo anche al taglio delle stesse querce (un po’ come avvenne nell’Alto Medioevo per l’abbattimento degli alberi sacri delle foreste germaniche), questo continuò almeno per un altro decennio nelle campagne di Subiaco e di Arcinazzo Romano, sempre però nella stessa scadenza calendariale.

Ecco dunque che si inserisce nel contesto, tale da giustificare la coincidenza rito-festa, la peculiarità della notte di San Giovanni, notte magica per eccellenza nella tradizione popolare, favorevole ai presagi e ai prodigi, dispensatrice di particolari virtù e di benefiche virtù e di benefiche influenze. La festa liturgica, con la sua posizione solstiziale e che sostituisce la celebrazione pagana di Fors Fortuna, non poteva non assorbire antiche usanze e credenze.

Solo alcuni esempi, per restare nell’ambito delle terapie infantili magico-mediche praticate nella nostra zona. Ad Arcinazzo Romano si accendevano, e in parte accade ancora oggi, i tradizionali “fuochi di San Giovanni”, su cui fino a pochi anni fa venivano fatti penzolare i bambini con la recitazione della seguente formula:

                                                  “Sballeca, sballeca San Giuanni,

                                                  te puzzi fa più ranne,

                                                  più ranne deju campanile,

                                                  sballeca, sballeca San Giuanni.”

Il rito serviva per scongiurare il rachitismo, tutt’altro che infrequente allora per la malnutrizione, e aveva delle varianti. Quando le fiamme erano alte il bambino un po’ più sviluppato doveva dire, saltandoci sopra: “San Giuanni meo (tre volte) famme cresce de più”; quando le fiamme erano più basse si recitava: “San Giuanni meo (tre volte) fa cresce questo bambino”. Un’altra usanza tuttora viva è quella di lasciare esposti all’aria della notte recipienti di acqua con petali di rose, certi che qui confluiranno le proprietà salutari diffuse nel cosmo. Al mattino i genitori lavano il viso o altre parti del corpo dei piccoli sia per rendere più morbida e vellutata la pelle sia per prevenire le malattie.

Il ritrovamento presso la località di San Giovanni dell’Acqua di un cippo dedicato al dio Silvano da parte del liberto Azio Dionisio che aveva ottenuto la libertà, aggiunge motivi di riflessione e si presta ad ulteriori ipotesi.

L’epigrafe scolpita così recita in segno di ringraziamento:

                                                  “Sancto Sylvano votum ex viso

                                                  ob libertatem

                                                  Sextus Attius Dionysius

                                                  Sig [Signum] cum base D.P. [donum posuit]”.

(Come voto per la libertà Sesto Azio Dionisio offrì in dono al santo Silvano una statua con piedistallo).

Della statua non vi è traccia, mentre il cippo è conservato nel monastero di San Benedetto su cui i monaci hanno voluto installare la croce e aggiungere la scritta: “Qui Quondam cippus Sylvani simulacrum per S. Benedicti filios crucem sustentavit”.

Però mentalità e ritualità pagane persistettero a lungo e per tutto il Medioevo e oltre furono combattute fortemente dalla Chiesa, spesso con scarso successo per l’ostinata resistenza delle plebi. Inoltre il mancato rinvenimento di altri reperti archeologici nella zona si può spiegare con il fatto che la divinità aveva due nomi: “Silvano era il nome che il dio assumeva nel culto privato, Fauno quello che lo contrassegnava nel culto pubblico”. (6) Quindi Silvano non aveva templi, feste, sacerdoti.

Ora si può legittimamente pensare che il rito della “passata” fosse qui esistente fin dall’età classica e connesso in qualche modo con Silvano, dio della vegetazione, della fecondità della natura, oracolare, pronto alla metamorfosi e pericoloso per le donne sotto l’aspetto erotico, non a caso ad esse non era lecito presiedere al suo culto. Dio dei confini: per questo veniva nominato santo e protettore degli schiavi che diventavano liberti con la cerimonia che terminava con la frase: “siedano gli schiavi e si rialzino liberi”. Poco probabile risulta l’ipotesi di una assimilazione successiva del rito, pure per l’isolamento territoriale della valle, e un ulteriore richiamo ci viene da una fonte letteraria che insiste su questa presenza di silvani. Così racconta il domenicano francese Stefano di Borbone (1190/95-1226): “Introducevano il bambino nudo nelle fenditura presente tra due tronchi di albero… scongiuravano i fauni, che erano nella selva Rimite, affinché ricevessero il bambino ammalato e indebolito, dichiarandolo loro proprietà, e restituissero il bambino che avevano portato via con loro, grasso e grosso, vivo e sano”. (7)

Anche nella valle dell’Aniene la Chiesa cercò di sradicare il paganesimo eliminando le vecchie divinità; e chi meglio della figura anacoretica e “pastorale” del Battista poteva sostituire Silvano? Il rito della “passata”, riadattato sincreticamente in una nuova realtà, fu tollerato a lungo fino a che, stridente con i nostri tempi e soprattutto con la fine della civiltà contadina, è stato definitivamente messo da parte. Tuttavia in alcune aree marginali dell’Italia meridionale, per esempio in Puglia, esso è tuttora in uso, sia pure occasionalmente.

Relitti pagani e comportamenti spesso irrazionali hanno accompagnato la società arcaica lasciata alle spalle, ma i nostri attuali riti consumistici, che hanno alla base una spaventosa distruzione della natura, sono razionali? L’uomo antico sentiva la natura in senso religioso, la rispettava con sentimento reverenziale perché sapeva di essere parte integrante di quel mondo, con il quale condivideva la vita e la morte.

 

 

Note

1 - Non compare alcuna località del Lazio nella ricognizione sulla diffusione del rito su scala nazionale effettuata da A. M. Di Nola in L’arco di rovo, Torino, Boringhieri, 1983.

2 - L. Caronti, Subiaco nel turismo nell’arte nella storia, Roma, Lux, 1964.

3 – Tutte le fonti orali citate sono state raccolte a Subiaco a ad Arcinazzo Romano e si riferiscono agli anni 1977-79.

4 - A. M. Di Nola, L’arco cit.

5 – A. M. Di Nola, La festa e il bambino, Torino, ERI, 1991.

6 – A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1955.

7 - A. M. Di Nola, La festa cit.