EQUI O EQUICOLI ? CONTRIBUTI PER UNA DEFINIZIONE ETNICA

EQUI O EQUICOLI ?
CONTRIBUTI PER UNA DEFINIZIONE ETNICA

di Paolo D’Ottavi

Intorno alla popolazione degli Equi, che per circa duecento anni (V-IV secolo a.C.) impedì agli antichi Romani di espandersi  nella valle dell’Aniene e che, insieme ai Volsci, mise in grave pericolo, più di una volta, le sorti di Roma, c’è oggi un risveglio culturale da parte di Associazioni  del territorio che fa ben sperare sulla possibilità che si arrivi a scriverne la storia e a togliere il velame oscuro che ancora circonda  questa sfortunata quanto straordinaria gente.
Della popolazione equa, che ha avuto una influenza straordinaria sull’antica Roma,  è infatti misterioso perfino il nome. Si chiamavano Equi o Equicoli? Erano una sola popolazione o due rami della stessa popolazione?
Per risolvere questo ed altri misteri intorno agli Equi e per individuare il suo territorio, occorre ripartire dall’inizio, e cioè dalla disposizione topografica originaria dei centri latini e dei popoli confinanti che occupavano il territorio a destra e a sinistra del Tevere, a destra e a sinistra dell’Aniene fino al Fucino, il territorio sabino fino all’Appennino,  la parte sinistra del Liri. Una parte di questo notevole territorio, che molto più tardi prese il nome di Lazio, prima della formazione  di Roma, che si fa risalire al 753 a.C., era occupato, a partire dalla riva sinistra del Tevere fino ai colli Albani ( Monte Cavo), da Alba Longa e dai centri, che da Alba dipendevano. Intorno a questa area c’erano poi altre popolazioni: quella Etrusca, quella Sabina, quella degli Equi,quella dei Volsci e quella degli Ernici.
Di tutte queste popolazioni, ad eccezione degli Etruschi, ben poco si sa. Sono misteriose le radici etniche, la cultura, la civiltà, la storia; si conoscono solo la loro scomparsa e gli avvenimenti che le videro contrapposte a Roma per la sopravvivenza. Ciò è dovuto al fatto che Roma portò avanti una politica di annessione territoriale e demografica delle popolazioni che sottometteva, imponendo a tutte la stessa organizzazione, le proprie leggi, gli usi, i costumi (pure se ne attingeva anche da loro) e distruggendo, così, quasi ogni presenza delle preesistenti civiltà. Fece eccezione alla regola la politica portata avanti nei confronti della popolazione Ernica, che fu federata con Roma fino alla guerra sociale, e mantenne, fino a quell’evento, una propria identità culturale ed una propria  autonomia amministrativa, con eccezione di Anagni, che fu civitas sine suffragio, posta sotto il controllo di un prefetto e che solo dopo la guerra sociale divenne municipio.
Una spiegazione a questa eccezione c’é. La popolazione Ernica, costituita, oltre che da Anagni, che ne era la città più importante, da Ferentino, Alatri, Veroli e Frosinone, aveva una modesta entità territoriale, circa metà della valle del Sacco, ed era incuneata tra il territorio degli Equi e dei Volsci, che erano all’epoca i nemici di Roma più agguerriti, ma anche i più consistenti demograficamente e territorialmente. Gli Ernici erano intimoriti da queste due popolazioni che praticavano la transumanza tra loro e che erano per questo naturali alleati contro chiunque altro. Peraltro la popolazione ernica, che non confinava con il territorio romano e non abitava in monti scoscesi ed in rocche naturalmente inaccessibili come gli Equi, risiedeva in posizione collinare ed era autosufficiente sul piano economico. Tutte queste circostanze favorirono l’insorgere di un rapporto stretto con Roma dovuto a comuni interessi: gli Ernici avevano l’esigenza di non farsi sovrastare dagli Equi e dai Volsci, i Romani avevano interesse ad avere un fronte amico, incuneato in quello delle due popolazioni, che più temeva. Alla lunga, quando gli Ernici capirono che Roma, nei suoi piani espansionistici, avrebbe potuto non tener conto della loro indipendenza e conquistarli, allo stesso modo di altre popolazioni,  trovarono una intesa ufficiale, che, pur se li portò a perdere parte della loro libertà, salvaguardò però le loro esigenze culturali e religiose, oltre che una ridotta autonomia amministrativa. E tuttavia non rimane molto neanche della storia e della civiltà degli Ernici, anche se qualche studioso, con molta fantasia più che con rigore storico, tenta di attribuire opere di sicura epoca romana, presenti nell’antico territorio ernico, a fantomatiche popolazioni indigene o a misteriosi emigranti Pelasgi.
Meno fortunati tra tutti i popoli che ebbero a scontrarsi con Roma sono stati certamente gli Equi, sia perché pochissimi sono i resti nel territorio che sono arrivati fino a noi, sia perché nella campagna militare che portò alla loro definitiva sottomissione, i Romani commisero un vero e proprio genocidio, in contrasto, per altro, con la politica di annessione demografica che sempre li aveva contraddistinti. Tutto ciò che si può scrivere degli Equi, almeno fino ad oggi ed in attesa che recenti scoperte ci restituiscano altre notizie, è pertanto legato agli avvenimenti relativi alle lotte intercorse prima della loro sottomissione, riportati dalle fonti di storia romana, che comunque non sono poca cosa e, nel loro insieme, consentono di avere di questo popolo uno spaccato della sua cultura, della sua organizzazione, della sua identità. Gli Equi, quando Roma cominciava a guardarsi intorno con mire espansionistiche, avevano civiltà avanzata ed una economia ricca ed ebbero non poco influsso sulla organizzazione Romana a partire dalla sua formazione e per i primi due secoli della sua storia.

Equi ed Equicoli: identità razziale o dicotomia etnica?
Nelle fonti di storia romana si conoscono popolazioni col nome di Equi e/o Equicoli, che non si sa bene se indichino popolazioni distinte o se siano due nomi di una stessa popolazione. Questo, allora, è certamente un tema da affrontare e da chiarire, prima ancora di qualsiasi altro argomento, che riguardi la popolazione equa.
La domanda sulla unicità razziale o sulla dicotomia etnica  tra gli Equi e gli Equicoli, sul piano letterario, è molto attuale. E’ sicuramente indicativo, per valutare l’attualità dello studio e della ricerca sul tema, un brano del saggio pubblicato dalla Alvino: “l’alta e media valle del Salto, conosciuta anche come Cicolano, deriva questo suo nome dagli Equicoli, che un tempo l’abitavano (ager aequicolanus). Fin dalla tarda età repubblicana, nelle fonti letterarie sia greche che latine, a conclusione delle lotte sostenute con Roma, le popolazioni stanziate nella valle del Salto, vennero identificate con la denominazione di equicoli, denominazione che poi prevarrà soprattutto con Ovidio  (Fasti, III,93) e Silio Italico (VIII,731). Oggigiorno identificati con gli Equi, gli Equicoli sono da considerarsi un ramo collaterale di questi ultimi, che appartenenti al gruppo linguistico osco- umbro, occupavano la valle dell’Aniene, la zona intorno al Fucino, la pianura Carseolana, appunto, la valle del Salto, che costituiva la principale via di comunicazione tra le popolazioni del Fucino, della valle dell’Aniene e della pianura reatina, e che confinava con il territorio degli Ernici, dei Marsi e dei Sabini” (1).
Sulla medesima lunghezza d’onda è anche una Enciclopedia, molto diffusa ed accreditata, la Treccani,  la quale definisce gli Equicoli come “frazione della stirpe degli Equi, la quale dopo il definitivo soggiogamento di costoro nel 304, restò ad abitare l’alta valle del’Imella; in possesso della civitas sine suffragio (Cic, De officiis, I,35) da principio; poi come municipio (Strabone)”.
Per avere un quadro più ampio sulle idee che circolano in proposito, si ricorda che Paolo Carosi  scrive sull’argomento: “In origine la valle dell’Aniene fu abitata dagli Equi: il nome è ricordato dal paese Marano Equo. Gli Equicoli invece vivevano nella valle del Turano e del Salto; ed il nome sopravvive nel territorio detto Cicolano (= Equicolano)” (2). E ancora: “in un primo tempo gli Equi ebbero rapporti pacifici con i Romani. Dal re degli Equi Fertor Resius (Erresius) i Romani avrebbero preso l’istituzione dei Fetiali. Quando però i Romani cominciarono la loro espansione militare, gli Equi, alleati coi Volsci, a lungo si difesero contro i Romani, passando talvolta all’offensiva… Tra gli oppidi degli Equi ne ricordiamo uno, non lontano dalla valle dell’Aniene, che fa da intermediario nel ritiro di san Benedetto da Roma al sacro speco: Affile, il nome originario Afilae (gli abitanti Afilani), mentre Enfide, Effide, sono deformazioni posteriori” (3).
Stanislao Andreotti si limita a registrare che “la nostra zona, come il resto della valle dell’Aniene, in origine fu abitata dagli Equi. Essi in alleanza con i Volsci, difesero a lungo accanitamente la loro indipendenza contro i romani, ma dopo una lotta secolare furono definitivamente soggiogati nel 304 a.c. venendo a formare la tribù Aniense”.
Per completare il quadro delle ipotesi, che si sostengono, soprattutto in relazione alla dicotomia etnica di Equi ed Equicoli, ricordo quanto scrive l’architetto Carlo Promis: “La nazione equa può considerarsi divisa come in due grandi famiglie, o tribù, delle quali una sotto il nome di Equi abitava le pianure ed i monti dell’Algido e l’Aniene, estendendosi lungo il corso di questo fiume, e l’altra sotto il diminutivo di Equiculi coltivava le rive del Turano e del Salto” (4).
A questo punto, però, sono necessarie alcune precisazioni. Le affermazioni della Enciclopedia Treccani, a mio parere, sono del tutto infondate perché ambedue le circostanze risultano essere solo erronee deduzioni, malamente attribuite. Infatti Strabone non ricorda alcun municipio fra gli Equicoli e Cicerone dice solo che la cittadinanza, sine o cum suffragio, gli antichi Romani la concedevano a chi la meritava. Quanto ad Affile, che viene detta dal Carosi oppido equo, c’è da osservare che il centro abitato solo nel XVII secolo ha preso a chiamarsi così, perché per più di mille anni la località ha avuto il nome di Effide, a seguito del ritrovamento di una epigrafe male interpretata.
Le ipotesi, avanzate dagli studiosi, sopra citati, sul nome  degli Equi e degli Equicoli e sulla loro appartenenza a rami collaterali di una popolazione dalle stesse radici etniche, a mio avviso non sono assolutamente condivisibili, anche se si comprendono, stante il mistero che circonda la popolazione equa. Non c’è dubbio, infatti, che le ipotesi della Alvino, di Carosi e del Promis trovino un qualche fondamento soprattutto nei poeti latini come Virgilio, Ovidio e Silio Italico. Virgilio, che come gli altri poeti, non è uno storico, come risaputo ha scritto l’Eneide per esaltare il mito di Roma. Il poema epico del poeta mantovano ha avuto però tanta fortuna, anche sul piano storico, e soprattutto presso studiosi di storia locale, da essere preso a riferimento abituale, anche laddove ha avanzato ipotesi fantasiose sulle origini delle prime popolazioni, che ebbero a scontrarsi con Roma. Il poeta per tre volte, nel VII libro dell’Eneide, espressamente o implicitamente, parla del territorio equo o equicolo. Il primo accenno che fa al territorio equo è quello in cui ricorda la schiera che abitava il freddo Aniene guidata dal condottiero Ceculo contro Enea:
Hunc legio late comitatur agrestis:
quique altum Praeneste viri, quique arva Gabinae
Iunonis gelidumque Anienem et roscida rivis
hernica saxa colunt.
Il poeta non indica espressamente gli Equi, ma è evidente che quando  ricorda “la schiera agreste di Preneste, di Gabi e di coloro che abitano il freddo Aniene”, individua in essi gli Equi, il cui territorio comprendeva almeno l’Algido e Tuscolo, ma anche Gabi, Preneste e gli abitanti del fiume Aniene fino ad Alba Fucens, essendo i Romani convinti che l’Aniene (“gelido” per Virgilio, per Marziale e Silio Italico, ma “freddissimo” per Frontino) avesse le origini nel lago del Fucino. Il mancato ricorso nella circostanza al nome equo è solo legato a problemi metrici, mentre lo usa successivamente per ricordare  che il condottiero Messapo guida contro Enea le schiere Fescennine, gli Equi, i Falisci, quelli del Soratte, del Cimmino e di Capena:
Hi Fescenninas acies Aequosque Faliscos.
Hi Soractis habent arces Flaviniaque arva
Et Cimini cum monte lacum lucosque Capenos.
Il terzo caso in cui Virgilio (Eneide, libro VII) si trova a presentare gli  Equicoli è quello in cui cita il condottiero Ufente, che guida le sue schiere contro Enea:
Et te montosae misere in proelia Nersae,
Ufens, insignem fama et felicibus armis;
horrida precipue cui gens adsuetaque multo
venatu nemorum, duris aequicola glaebis.
E’ bene chiarire, tuttavia, senza mezzi termini che si è in presenza di espressioni e fantasie poetiche ricche di iperboli e ipotiposi, i cui termini rispondono ad esigenze metriche e non storiche. L’esametro dattilico, usato da Virgilio, richiedeva al quinto piede un dattilo ed aequicolus era un dattilo naturale ed ideale per il poeta, che doveva rispettare le cadenze della metrica. E come Virgilio anche altri poeti, che hanno influenzato nella materia non poco le ipotesi degli studiosi, usano il termine equicolo perché dattilo naturale. Infatti Virgilio, per l’esigenze del quinto piede dell’esametro, ricorre ad aequicola glaebis , così come Silio Italico ad aequicola rura ed Ovidio ad aequicolus asper.
Io credo che non possano essere questi gli elementi di prova o di certezza per ricostruire la storia di un popolo o per conoscere il vero nome del popolo equo o equicolo. A voler attribuire anche un minimo di valore storico a queste espressioni poetiche, dovremmo concludere che il territorio attraversato dall’Aniene era quello degli Equi, mentre quello equicolo era il territorio ancora oggi detto Cicolano, tra Massa d’Albe, Borgorose, Pescorocchiano, Petrella Salto. Ma una lettura topografica, come quella data, poteva appartenere all’età augustea e non certamente ai tempi che precedettero e seguirono la formazione di Roma.
Silio Italico nelle Punicorum si discostava, comunque, da questa ipotesi perché assegnava agli equicoli, come territorio d’insediamento, non già il Cicolano ma l’alta valle dell’Aniene:
Quique Anienis habitant ripas, gelidoque rigantur
Simbrivio, rastrisque domant aequicola rura.
Con questi versi il poeta celebrava l’intervento degli abitanti del territorio equo a fianco dei Romani contro Annibale e per comprenderli nel giusto modo, si deve tener presente che nell’antica Roma i reclutamenti militari avvenivano attraverso le tribus e ciò anche quando i municipi, dopo la guerra sociale, assunsero molte delle funzioni di queste. Il riferimento di Silio Italico è da collegarsi, perciò, alla tribus Aniensis. Se non si concorda con l’interpretazione data, sarebbe automatica la contraddizione fra quanto scrive Silio Italico e quanto raccontato da Livio a proposito di Alba Fucens e Carseoli, colonie ascritte alla tribus Aniensis, e del loro rifiuto insieme ad altre dieci: Nepente, Sutrio, Ardea, Cales, Sora, Suessa, Setia, Circei, Narnia, Interamna, di fornire militari e vettovaglie ai Romani.
Ovidio, invece, non dà indicazioni topografiche, ma nei Fasti ricorda che alcune celebrazioni religiose del dio Marte davano il nome coincidente fra gli Albani, gli Aricini, i Tuscolani, e diverso per i Laurenti e gli Equicoli. L’uso di Equicolo da parte di Ovidio, indipendentemente dalle esigenze metriche, sembra nel caso voler indicare gli Equi, senza distinzione di sorta:
Inter Arcinos Albanaque tempora constat
factaque Telegoni moenia celsa manu quintum
Laurentes, bis quintum Aequicolus asper
a tribus hunc primum turba Curensis habet (5).
Queste citazioni, come detto, culturalmente interessanti, storicamente non possono costituire la base di uno studio serio ed approfondito per accertare quale sia il nome degli Equi e/o degli Equicoli.
Le fonti di riferimento devono essere gli storici antichi più accreditati, fra i quali il principe non può che essere Tito Livio, che in numerosi libri e con ricchezza di notizie, riferisce le gesta romane, ma anche le imprese di questo popolo italico. L’affermazione non deve meravigliare perché l’opera di Livio, pur se scritta ai tempi di Augusto e per celebrare Roma, è il frutto di una laboriosa ricerca operata su testi molto antichi, sicuramente attendibile, quanto ai riferimenti degli Equi. Si può infatti pensare ad una difesa d’ufficio da parte dello storico, magari anche ad esagerazioni dei comportamenti dei Romani, ma nessuno  può pensare che nella circostanza possano essere state alterate le vicende marginali degli Equi.
Nella Storia di Roma di Tito Livio, gli Equi non sono argomento occasionale e lo storico latino indica abitualmente quella popolazione con un solo termine: Equi, ricorrendo in due soli casi al termine equicolo, e precisamente al capitolo XXXII del primo libro, allorché riferisce del rito feziale (“jus ab antiqua gente aequicolis quod nunc fetiale habent descripsit, quo res repetuntur”), e al capitolo XIII del decimo libro, allorché riferisce che “lo stesso anno, sotto i consoli Gneo Fulvio e Scipione, nel 298 a.C. fu stanziata una colonia a Carseoli in agrum aequicolorum”.
Una conclusione, che potrebbe trarsi, è quella secondo cui il termine equicolo sia stato utilizzato subito dopo la istituzione della tribus Aniensis (299 a.C.), in cui Carseoli fu necessariamente inserita, ed il cui territorio comprendeva quello delle 40 città conquistate dai Romani nel 304 a.C. con la sottomissione degli Equi. L’uso del termine equicolo, allora, avrebbe dovuto servire ad indicare il resto degli Equi non sottomessi, sopravvissuti in quello che ancora oggi si dice Cicolano. La maggior parte degli studiosi è arrivata a questa conclusione, anche se si deve osservare che la colonia di Carseoli fu inserita nella Tribus Aniensis, cioè nel territorio delle 40 città eque conquistate, e di conseguenza dovrebbe affermarsi che l’espressione “in agrum eaquicolorum” starebbe ad indicare la valle dell’Aniene. Infatti se si volesse ritenere che con questa espressione Livio volesse indicare il Cicolano, l’affermazione dello storico sarebbe implicitamente contraddittoria.
Dionigi D’Alicarnasso, altro storico antico, conferma interamente Livio e fa ricorso, per narrare le vicende e le imprese degli Equi, unicamente a questo termine. Nel compendio di storia romana, noto come Antiquitates Romanae, compare solo il termine Equi, con l’eccezione del termine aequiculus che usa allorché riferisce della istituzione da parte di Numa Pompilio del rito feziale, che dice appreso dagli Equicoli: “la settima parte delle leggi sacre fu indirizzata a dar ordine ai feziali, come essi vengono chiamati. Questi, secondo il linguaggio greco si direbbero giudici di pace: si scelgono tra le famiglie più illustri e restano addetti al sacro ministero tutta la vita. Numa per la prima volta istituì tale venerabile ordine. Io non so precisare se egli lo derivasse dagli Equicoli, come alcuni ritengono” (6).
In Strabone, noto geografo dell’antichità, gli Equi sono ricordati così tre volte; non compaiono né equicolo né equicolano (cicolano). Sul finire dell’epoca repubblicana, proprio per l’azione demolitrice dei Romani, della civiltà equa nulla restava nel territorio, soprattutto in quello limitrofo alla città di Roma, per cui gli scrittori e gli storici avevano serie difficoltà ad attribuire importanza a questo popolo. Per questo, oltre che in Strabone, anche in Plutarco, autore delle Vite Parallele, che ebbe modo di raccontare i momenti epici della storia romana, gli Equi, di cui usa solo questo nome, sono argomento di limitata attenzione e si incontrano solo nelle monografie di Coriolano e di Furio Camillo.
Ma c’è un’iscrizione, conservata nell’Antiquarium del Palatino, che rappresenta il documento forse decisivo per comprendere il problema. Nell’epigrafe viene ricordato Erresio (o Resio) Fertore e la sua qualifica di rex Aequicolus, il quale per primo mise in vigore il rito feziale, che poi i Romani fecero proprio sotto il re Numa Pompilio. La lettura attenta di questa iscrizione può essere illuminante e risolutiva della questione:
Fert. Erresius
rex Aequicolus
is primus ius fetiale paravit
Inde P.R.
discipleinam excepit (7).
Come si vede il termine equicolo compare come aggettivo qualificativo del nome rex, per indicare il re degli Equi. Infatti non poteva dirsi rex aequus e non solo per cacofonia, ma per l’evidente confusione che si sarebbe avuta con “re giusto”. E del resto nell’iscrizione avrebbe potuto aversi rex Aequorum, che non avrebbe avuto lo stesso effetto espressivo e fonico, mentre se avessero voluto indicare un possibile popolo equicolo avrebbero dovuto scrivere rex Aequicolorum, cioè re degli Equicoli. Se a queste considerazioni si aggiunge che il termine equicolo (parola composta come per coelicolus) ricorre unicamente per ricordare la circostanza nella quale i Romani appresero e fecero proprio lo jus fetiale dagli Equi, deve concludersi che molto probabilmente le fonti ricordate trassero questa notizia, che riportarono con la stessa espressione, proprio dalla iscrizione, che è stata presa in esame. Ma nel caso l’uso dell’aggettivo equicolo era giustificato, perché unico aggettivo derivabile dal nome Aequus, il nome del popolo equo.
Questa lettura, che a qualcuno potrà sembrare artificiosa, è confortata proprio dalle citazioni culturali dei poeti, che sono stati prima ricordati. Virgilio e Silio Italico, infatti, usano il termine equicolo solo come aggettivo ( gens aequicola e aequicola rura ), perché in effetti, oltre a non aversi in nessuna fonte latina un altro diverso aggettivo per indicare la popolazione equa, l’unico modo per aggettivare il nome Aequus, senza creare confusione, era quello di renderlo con equicolo. Per chiarire ulteriormente il concetto, i Marsi, popolazione limitrofa degli Equi, almeno così tutti hanno scritto, sono aggettivati nel nome con marsici: guerra marsica, gens marsica, regio marsica. Allora si chiarisce anche il termine Aequos Faliscos di virgiliana memoria, il quale nella circostanza o vuole enumerare separatamente gli Equi e i Falisci o deve ammettersi che con Aequos vuole indicare i Falisci giusti.
Rimane da comprendere interamente l’espressione di Livio in cui ricorda l’inserimento di Carsoli, città dei Marsi, nel territorio degli Equicoli, cioè in agrum aequicolorum. Livio ricorre a questa espressione per affermare che la colonia di Carsoli viene annessa al territorio conquistato dai Romani nella campagna del 304 a.C., cioè in quel territorio che fu riunito nella tribus Aniensis.  Nel caso nessuna confusione è permessa, perché Livio con il termine aequicolorum  indica gli Equi, che ai suoi tempi molto probabilmente venivano indifferentemente indicati con Aequi o con Aequiculi.  Infatti, con quel termine Livio indica la popolazione del sottomesso territorio degli Equi, i cui abitanti cita in un altro  passo con Trebulanis, che molti hanno voluto individuare come gli abitanti di una inesistente città romana, mentre con quella espressione lo storico padovano voleva indicare gli abitanti del fiume Aniene, che presso gli Equi si chiamava Trebula, presso i Romani Anio e presso i Sabini Nerio.  L’affermazione è confortata dalla considerazione secondo la quale i Romani avevano sottratto Carsoli ai Marsi non certo per darla agli Equicoli (Cicolani), che non erano mai stati sottomessi. In verità, proprio dall’esame dell’espressione di Livio, oggi, anche senza che le fonti lo dicano, si comprende perché i Romani vollero l’operazione del distacco di Carsoli dai Marsi. La campagna del 304, quando gli Equi furono sottomessi, anche se non interamente, fu condotta dai Romani per impadronirsi di tutto il territorio dell’Aniene (fiume che credevano originasse dal lago del Fucino)  che comprendeva anche Alba Fucens. Fu aggiunto a tutto questo territorio quello di Carsoli, con lo scopo di chiudere e difendere la valle dell’Aniene, all’interno della quale intendevano costruire gli acquedotti per il rifornimento idrico di Roma.
Se non è questa la giusta lettura del termine Aequicolorum, dovrebbe ammettersi che si tratti di un errore di copiatura dei copisti medioevali, magari quando la denominazione volgare del territorio cicolano veniva indicata con l’attuale toponimo. In tal caso l’espressione originaria di Livio avrebbe dovuta essere in agrum aequiculum, con il termine equicolo usato come aggettivo di Equo. A definire la questione, in ogni modo, è  Diodoro Siculo, il quale in un passo del libro XIV della sua Storia Universale, narrando le vicende degli Equi  e la presa della città di Bola da parte dei Romani, inequivocabilmente dice: “Dopo la battaglia, il dittatore (Furio Camillo) sentendo che Bola era assediata dagli Equi (Αικλων), ora chiamati Equicoli  (Αικικλων), condusse l’esercito lì ed uccise la maggior parte degli assedianti”.
In conclusione, credo sia difficile sostenere la tesi secondo la quale sarebbero distinte, anche se collaterali, le etnie degli Equi e degli Equicoli, che sono sempre stati uno stesso popolo ed hanno abitato un comune territorio.

1 – G. Alvino, Gli Equi nel Lazio, Quasar, 1995.
2 – P. Carosi, I Monasteri di Subiaco, Subiaco, 1987,  p. 9.
3 – Idem.
4 – C. Promis, Le antichità di Alba Fucense negli Equi, Roma, 1836 (rist. anastatica, edizioni Polla, Avezzano).
5 – Ovidio, Fastorum: “E’ noto il mese che ha il nome di Marte fra gli Aricini e gli Albani e dentro le alte mura costruite per mano di Telegono  (Tuscolani);  i Laurenti  lo hanno per quinto e per decimo il fiero equicolo, lo ha come quarto mese invece  la popolazione di Curi”.
6 – Dionigi D’Alicarnasso, Antiquitates Romanae.
7 – C.I.L, VI, 1302: “Erresio Fertore, re equicolo, per primo emanò il diritto feziale. Poi il popolo romano fece proprio il cerimoniale”.