LA CAMPAGNA, IL FORNO E LA FAMIGLIA ‘E MINICUCCIA A SUBIACO

di Alessandro Scafetta

Era il tempo di quando nei campi la zitella cantava il ritornello: «E tutte se maritanu e déo nòne, mancu non lo sapesse fa lo pane», e le mamme o le donne in genere facevano il pane. Usanze secolari che hanno praticamente avuto vita fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Era il tempo in cui il mondo contadino ancora influenzava gran parte della società, dai piccoli ai grandi comuni, dai commercianti agli artigiani.

Questa mia riflessione non va considerata come nostalgia per il tempo passato, ma come intento di contribuire a  ché le giovani generazioni abbiano la conoscenza di quel sapere, praticato e tramandato dagli anziani. Un tempo che, a pensarci bene, nemmeno è troppo lontano.

A fare le stagioni in Campagna.

Allora le persone, pur nella vita grama e faticosa della campagna, sapevano anche essere allegre, facendo risuonare, tra colle e colle, stornellate e canti appresi nella Cam pagna Romana, allorquando uscivano da Subiaco per andare a lavorare: a fare le stagioni. In Campagna si incontravano e si integravano con genti provenienti da altre provincie laziali, finanche dall’Abruzzo. Tutti erano occupati nei lavori agricoli presso le proprietà dei principi romani, allora proprietari delle terre. Si partiva a piedi, prima, e con il treno, poi: intere famiglie compresi i bambini, i quali venivano adibiti a scacciare gli uccelli durante le semine e i raccolti. Si viveva in vecchi casolari in promiscuità, a contatto con gli animali da lavoro e da cortile: cavalli, buoi, bufale. Le ore di lavoro non si contavano: da sole a sole, dall’alba al tramonto sotto la severa sorveglianza dei fattori a cavallo, cioè dei fiduciari del principe. Allora, il bifolco, guidando i bufali, cantava: «E ju sòle ma fattu n’accenno, m’ha ittu: – Vattene che òjjo calà. Ci respose ju fattoretto: – Non è ora de stacca». Una moltitudine di gente, curvata sulla terra, divisa in compagnie e gavette. Era la cosiddetta schiavitù bianca, come affermavano gli anarchici del tempo che facevano proselitismo tra i contadini. Lo stesso Bertolt Brecht scriveva a proposito dei contadini dell’Agro Romano piegati da una vita di lavoro: «Vedo la loro infinita pazienza, ma la loro divina furia, dov’è?». Dopo le stagioni nella Campagna Romana si tornava a Subiaco.

La lavorazione del grano

Il grano veniva seminato entro il mese di novembre; nel mese di aprile, poi, avveniva la pulitura del grano germogliato dalle erbacce per mano soprattutto delle donne. La raccolta del grano, buona o scarsa, dipendeva dalle stagioni e dall’arcobaleno. Di questo si osservava il colore giallo: se era predominante, il raccolto sarebbe stato abbondante. Le spighe mature venivano mietute entro il mese di giugno, per poi essere accasolate in covoni, legati in fasci di spighe, barzi, a cui seguiva la raccolta delle spighe disperse nella stoppia. Iniziava, infine, la battitura coi mazzifrusti, seguita dalla scamatura a vento. Era questa la procedura lavorativa del grano antecedente alla moderna trebbiatura. Quando arrivò la trebbia, questa veniva trasportata a spalle lungo i sentieri di campagna da giovanotti esperti trebbiatori, i quali arrivavano, a volte, dopo il tramonto nell’accasolamento dei covoni e spegnevano il motore della trebbia per riposare, preparando il tutto per l’indomani mattina all’alba. Alla trebbiatura si cenava insieme, si beveva il vino del proprietario del grano, si passava il tempo raccontando accadimenti personali, storie vissute nella guerra e, tutti distesi sulla paglia sotto le stelle, si dormiva in attesa del nuovo giorno. Con il lavoro della trebbia, venivano riempiti di grano i sacchi di juta, i quali venivano poi pesati con il bilancione e subito caricati sulle mule o sugli asini. Il grano, trasportato a Subiaco, veniva riposto nelle case in luoghi appositi, dove, a secondo delle necessità, sempre a dorso dell’asino, ma anche sopra la testa delle  donne, veniva portato alla mola. Le donne dovevano attendere all’interno del molino il loro turno per macinare e per vedere scorrere giù dalla mola la bianca farina. Si ricavava anche la semola da scarto (simmuia), che veniva usata come alimento per gli animali domestici, oppure veniva aggiunta alla farina bianca per fare il pane scuro (1). Un mulino a grano a Subiaco era situato nei pressi del ponte di S. Francesco, dove l’acqua del fiume Aniene faceva muovere le macine: le mole ‘e ju Cuntinu. Un altro molino era situato a ridosso della chiesa di Santa Maria della Valle, da Carpentieri, ed andava ad energia elettrica.

Scalla e ammassa, Minicù!

Il pane, in quei tempi, raramente era venduto nei negozi, di norma si faceva nelle case. I rapporti con i forni erano curati dalle donne. Le infornate, solitamente avvenivano a notte inoltrata: il fornaio o la fornaia, una volta acceso il forno con legna secca, attendeva la giusta temperatura e, quindi, si recava a bussare alle porte delle case per avvisare le donne che si erano prenotate la sera precedente. Queste, al forno, vi si recavano anche per prendere il lievito da usare per l’impasto. - A Minicù, scalla e ammassa!, gridava il fornaio. Solo allora la donna, mentre gli uomini e i figli dormivano, procedeva all’impasto, usando l’acqua scaldata nel camino acceso. Formava, così, le molli pagnotte, ponendole nella scifa di legno dopo averci spruzzato un po’ di farina per non farle attaccare. Copriva poi il tutto con una coperta, si poneva sulla testa una corólla di panno con sopra la scifa e usciva da casa – con qualsiasi tempo – avviandosi verso il forno. Il numero delle pagnotte dipendeva da quanti si era in famiglia. Pascuccia la fornàra, usando una lunga pala piatta, infilava all’interno del forno rovente le molli pagnotte riempiendolo in tutta la sua larghezza e lunghezza, e richiudendo subito l’infuocata bocca. Le donne attendevano con pazienza la cottura, passando il tempo a ricucire qualche calzino bucato e, soprattutto, ad impicciarsi degli affari degli altri. Accadeva pure che qualcuna arrivava nel forno tutta impaurita, sussurrando nelle orecchie delle altre che alla fontana della Valle aveva sentito qualcuno che se stéa a sciacquà lòco dentro có chéllo friddu, mamma mea! Ma erano fatti, questi, che dovevano rimanere segreti, mai fare i nomi: – Non se sa mai! Ma tutte capivano che si trattava di lupi mannari. Il tempo di cottura delle pagnotte era all’incirca di un paio d’ore, e quindi si sfornava. Durante gli anni 50, il costo della cottura di ogni pagnotta era all’incirca 25 lire (2).

Ubicazioni dei forni a legna a Subiaco fino al 1960

Fino al 1940 a Subiaco c’erano due forni comunali: uno in via Garibaldi e un altro nel palazzo del Municipio (oggi piazza Emilio Blenio). Anche all’interno della Rocca Abbaziale vi erano forni per cuocere il pane. Prima dei bombardamenti del 1944, nella piazza detta della Fontanella al n. 8 (oggi di fronte alla banca Unicredit) vi era il forno di Pietro Zaccaria, padre del Fornaio Mario Zaccaria (Pinfete). Nel Rione della Valle gli abitanti, per la gran parte contadini, disponevano di ben quattro forni: all’inizio di via della Montagna al n. 24 vi era il forno di Quintilina e di Umberto Pistoia (Pajetta); all’inizio di via Milazzo, a partire da piazza della Valle, dietro il vicolo vi era il forno di Raniero Micozzi; al vicolo dell’Arciprete, ora via della Rocca, entrando nel portone con il civico n. 8 e scendendo alcuni scalini, vi era il forno di Pascuccia la fornara; da piazza della Valle scendendo alcuni scalini in direzione di Imprestegata al n.113, vi era un forno con a fianco un locale per deposito legna. Dislocati in vari punti della cittadina operavano molti altri forni: in via del Muretto, ora via Palestro n. 60 vi era quello di Pa squale Micozzi; a Piazza Polsinelli vi era il forno di Michele Segatori (Bellolla), nonno dell’attuale fornaio Michele Segatori; a via Fossa Ceca n. 5 vi era quello di Filippo Cignitti; a via Cavour n. 43, piazzetta della Fontana, vi era il forno di Pippinello; a via degli Opifici n. 9 vi era quello di Nannina la fornara, al quale si accedeva anche da via Cavour n. 20; nella stessa via degli Opifici al n. 40 vi era il forno di Pèppe Maratta; infine, a via Fabio Filzi n. 18, a fianco dell’Arco che dà verso piazza del Campo, vi era il forno di Mappóne, che era anche punto di riferimento degli abitanti sia del Campo che del Colle.

La famiglia contadina ‘e Minicuccia

Minicuccia, con il suo prezioso carico caldo, si riavviava lèsta lèsta verso casa, che si trovava nei pressi dell’Arco del Fattore. Era ancora luscu e bruscu, una mattinata senza alba, nuvolosa e piovigginosa. Ndonio, il marito, e suo padre, il vecchio Sastiano, erano già alzati: stavano preparando Pallinu, l’asino (3), per poi avviarsi verso la località Montore dove avevano il terreno. Dopo la vendemmia ottobrina c’era il tempo della semina del grano, e a dicembre, infine, la raccolta delle olive. Guardando il cielo, il vecchio disse: – Jamo jamo, ju tempo s’aspetta ‘n gambagna. Minicuccia alla svelta aveva, per loro, preparato due tazze di latte con il caffè di orzo e due fette di pane ancora caldo. – Me oléo sciacquà ji ócchi ma non ci sta mangu nu guccittu ‘e acqua alla conca», fece  Ndonio. – Innòtte sò fattu lu pà e m’ha scórta. Se aspitti vajjo da Giggia, nu soréjjo (4) de acqua mi j’uà – rispose la moglie. Giggia abitava alla porta a fianco; era rimasta sola con la figlia piccola, il marito, Gino, non era tornato dalla guerra, disperso in Russia. – Lassa perde Minicù, me lavo n gambagna». Poi Ndonio si raccomandò di non fare tardi a portare il pranzo: – La cupèlla la porto éo, l’attacco a j’asino. Mentre stava per chiudere la porta di casa, la moglie si rivolse al marito: – A Ndò, me scordéo de ditte che ieri ju maestro de Richetto m’ ha fattu chiamà e ma ittu che figlitu non fa i compiti. Ju vede sempre de giocà a palline alla Valle. – A sì – rispose il marito – dicci a Rico che masséra quandu revengo me caccio la cinta. – E só reazzi Ndò, disse sotto voce Sastiano  mentre camminava, giustificando il nipote. – Che reazzi, papà, ata studià! Che faccio come ti, che all’età séa me porti a Lunghezza alla Campagna Romana? Ata studià! Quando il sole di mattina era già alto, tutte le case di Subiaco fumavano dai camini.

Allora, in tutte le stagioni, andava acceso il fuoco per cuocere il pranzo: non c’era ancora il gas. Minicuccia, verso mezzogiorno, si avviò su per gli scalini dell’Arco dell’Oratorio, per la via della Montagna; proseguì lungo la  mulattiera piena di buche e pozzanghere di urina degli asini, stando attenta a dove metteva i piedi. La canestra ferma sul capo con all’interno il pranzo per gli uomini e anche Giggi, l’ultimo nato di quattro mesi. Allora, in campagna, il pranzo si consumava, tempo permettendo, alla taglia (5). Per tutto il pomeriggio Minicuccia aiutò gli uomini, anche con la zappa; raccolse in terra gli ultimi frutti dell’estate, le nespole, da far maturare nella paglia. Poi, lesta, si riavviò prima del tramonto verso casa per preparare la cena per gli uomini che sarebbero ritornati più tardi, quando il sole avrebbe scollato dietro il monte Guadagnolo. Quella sera, Ndonio e suo padre si attardarono, dovendosi recare alla pendema (6) a raccogliere le mele tardive cadute dalla pianta per via del vento della passata notte. Le avrebbero portate, l’indomani, a Ninu, il maiale, che era giunto  quasi alla fine dell’ingrasso. L’inverno ormai era prossimo e alle prime gelate di gennaio, di norma, arrivava j’ammazza pórci. E si faceva festa!

1- Stesso procedimento avveniva con il granturco macinato che produceva la farina gialla, ottima per la polenta e la pizza alla graticola (ratìcuia), la quale, mischiata con erbe cotte e patate lesse, dava un buon pappaciuccu.

2- Ringrazio Anna Proietti Mercuri per tutte le preziose informazioni.

3- Per quanto era utile, si diceva che l’asino «campa la casa».

4- Ju soréjjo era il mestolo di rame a manico lungo per attingere acqua dalla conca.

5- Alla taglia, era il punto dove la zappa formava il solco nella terra.

6- Alla pendema, sta per terreno in discesa, molto scosceso.