LA COSTRUZIONE DEL GENERE : LA BAMBOLINA E IL CAVALLUCCIO PASQUALE A ROVIANO E NELLA VALLE DELL’ANIENE

LA COSTRUZIONE DEL GENERE :
LA BAMBOLINA E IL CAVALLUCCIO PASQUALE
A ROVIANO E NELLA VALLE DELL’ANIENE

di Boris Tacchia

Entrando in contatto con aspetti della realtà del tutto nuovi, molto spesso ciò che prima passava inosservato, nonostante fosse parte integrante dell’esistenza di ognuno di noi, comincia ad assumere un particolare senso. E’ il caso del genere e della sua costruzione  sociale, soprattutto femminile (1).
Mi sono ricordato, allora, di una tradizione: il donare dolci pasquali ai bambini, ormai residuale nel territorio della Valle dell’Aniene e in particolare a Roviano, ed ho cercato di analizzarla in rapporto alla distinzione tra maschile e femminile e al suo essere parte di un processo, appunto, di costruzione del genere.

Bamboline  e  cavallucci
- Tieni Antò, prendi!
- No ! E’ più bella quell’ altra!
- Che, la pupazza? I maschietti devono prendere i cavallucci, quelle sono per le femminucce.
Un breve dialogo tra un bambino di pochi anni, desideroso di avere una bella bambolina di pasta piuttosto che un asimmetrico cavallo, e una fornaia che gli nega questa piccola felicità. Solo questo? Apparentemente si, ma…
“La pupazza” e “ju cavallucciu” sono due dolci di pasta biscottata a forma, appunto, di bambola  e di cavallo che a Roviano, ma anche negli altri paesi della Valle dell’Aniene, venivano donati ai bambini per la merenda della Pasquetta o della domenica successiva in Albis, come a Ciciliano. Essi erano adornati con canditi rossi o ciliegie al posto delle bocche e chicchi di caffè o pezzettini di carbone al posto degli occhi ed avevano la singolare caratteristica  di avere collocato nella pancia un uovo tenuto fermo grazie a due cordicine di pasta intrecciate (2).
- Pe’ falle ce sèrve la pasta delle ciammèlle – mi ha raccontato la bisnonna materna Grisanti Secondina – pe’ lle ragazze, se pigliava un po’ de pasta, se faceva ‘na bella pallina e se faceva la testa. Poi se ce mettevano du’ chicchi de pepe e si facevano l’ occhi. Poi si faceva un taglietto col cortello e se faceva la bocca, se faceva ‘na striscetta e se metteva intorno al collo, a colletto. Si pigliava ‘n altro pezzo di pasta, si schiacciava bene e se faceva il corpo e la pancia. Le braccia se tagliavano co’lle forbici e così le dita. Poi se metteva un ovo sodo sopra la pancia con le striscette pe’ fermarlo. Invece il cavalluccio se faceva con un pezzo di pasta lungu e poi co’lle forbici se ‘ntagliava un po’ e se facevano le gambe” (3).
La bambolina, cui spesso veniva dato l’aspetto di donna matura con tanto di seni e braccia incurvate sui fianchi nella tipica posa in cui venivano ritratte le contadine nelle stampe sette-ottocentesche, poteva inoltre portare collanine fatte di confettini di zucchero. Queste piccole opere d’arte commestibili presentavano delle sensibili differenze a seconda dei paesi e, quindi, dei diversi contesti socio-economici in cui venivano “scolpite” (un conto, ad esempio, se le impastava la nonna in casa, un altro se le confezionavano i forni locali!) sia  per quanto concerne la fattura, il nome e il tipo d’animale che rappresentavano. Così, nei villaggi prossimi ai pascoli montani, in cui il principale mezzo di sussistenza era l’allevamento di equini e bovini, la rappresentazione più usata era quella del cavallo (ad eccezione di Cervara di Roma che, nonostante la sua collocazione ad oltre mille metri di altezza, risentiva del profondo legame culturale che aveva con Subiaco, situata sul fiume). Nei paesi più a valle, al contrario, in cui si trovavano soprattutto animali di piccola taglia, predominavano galli e lepri. A Subiaco la bamboletta veniva chiamata “pigna” (2) e per i bambini, anziché “ju cavallucciu”, si modellava “ju valle” (gallo) con coda e cresta alzate. A Jenne, invece, i due tipi di dolci venivano chiamati “mammoccétta” e “cavajo”, mentre a Cervara di Roma il profumo de “la pignatèlla” e de “ju calluzzittu” (galletto)  appena sfornati riempiva le piccole strade del paese. A Marano Equo, caso unico,  per i bambini si confezionava “ju lèpere” (lepre) e per le bambine la “palommèlla” (donna paffuta, rotondetta) con braccia intrecciate sul ventre a reggere l’uovo. Anche ad Arsoli si poteva trovare la “palommèlla” ma, a differenza del vicino Marano, era accompagnata dai più diffusi cavallucci, come pure a Montecelio, paese della Sabina (4).
L’usanza di donare questi particolari tipi di dolci si perde lontano nel tempo e, mancando una vera e propria documentazione scritta, a parte notizie riportate in diversi testi da studiosi locali, l’unico mezzo che abbiamo per averne la testimonianza è cercare nella tradizione orale, nei ricordi delle persone anziane. – Se faceva l’ovo da prima, pe’ tradizione – mi ha raccontato sempre nonna Secondina -. Ju cavallucciu se regalava ai maschietti perché so’ ommini, so’ maschi. Colla bambola che cce fanno?
A questo punto è necessario porsi alcune domande: che cosa rappresentano l’uovo nella pancia di questi animaletti e le bambole regalate ai bambini e perché per i maschietti erano sempre riprodotti animali (5) mentre per le femminucce donne mature? Quale funzione hanno avuto in realtà questi dolci e qual è il significato che essi veicolavano? Come è potuto avvenire che questo fatto folklorico, chiamiamolo così, nonostante il forte radicamento che aveva nella cultura contadina della Valle dell’Aniene, sia quasi del tutto scomparso e perché nei paesi in cui fino a un decennio fa ancora sopravviveva, come a Camerata Nuova e a Riofreddo, qui grazie alla volontà delle anziane sorelle Rocchi allora conduttrici del forno locale, abbia perso ogni legame con la cultura e i valori di appartenenza?

L’uovo simbolo di vita
Studiando culture anche molto lontane tra loro, sia in senso cronologico che spaziale, oppure consultando testi che le riguardano, è quasi sempre possibile trovare riti, cerimonie, miti, leggende in cui l’uso o la figura dell’uovo è centrale. Nell’antico Egitto, ad esempio, il dio Ptah, creatore  dell’uomo, viene rappresentato mentre modella un uovo per creare il mondo; nella Mesopotamia e nell’antica Grecia dall’uovo nascono Ishtar ed Eros, divinità dell’amore; nell’antica Roma i contadini usavano sotterrare uova dipinte di rosso nei campi per propiziarsi un buon raccolto; in molte parti d’Europa e d’Italia sono state trovate delle uova dentro molte tombe come simbolo d’immortalità (6).
L’importanza di questo piccolo oggetto, anche in culture tra loro molto differenti, e che lo rende quasi una “costante culturale”, risiede nel legame profondo che ha con l’idea di nascita. L’uovo è, infatti, un essere in potenza, in un certo senso un “contenitore di vita” ed è, come tale, una delle poche espressioni materiali della possibilità di venire alla luce o tornare alla luce. Per queste sue caratteristiche è sempre stato visto come simbolo di fertilità, fecondità, creazione. Non a caso era di fondamentale importanza durante i riti contadini che avevano luogo in primavera, la stagione della rinascita della Natura, tanto che in molti paesi d’Europa i contadini chiedevano abbondanza di raccolti appendendo alcune uova sugli alberi, come in Russia e nella Repubblica Ceca.
L’uovo simboleggia la nuova vita e il cristianesimo antico lo adottò come simbolo della resurrezione di Cristo. E’ impossibile non notare infatti come la dottrina cristiana si sia appropriata, anche in questo caso, di un’immagine, un simbolo altro e l’abbia  poi cristianizzato, inserendolo in un orizzonte nuovo, grazie ad un processo di acculturazione coatta che ha finito per produrre, come spesse volte è accaduto, un fatto tendenzialmente nuovo, sincretico.
L’anello di congiunzione che ha permesso questa operazione è da ricercarsi nelle somiglianze che legano i due diversi universi culturali. La prima è il periodo in cui avvenivano i “rituali con le uova”. Il Concilio di Nicea del 325 d.C. fissò, infatti, l’inizio della Pasqua cristiana in corrispondenza del Pesach ( saltare, passare oltre ) ebraico. Nella cultura ebraica questa era l’antica festa primaverile dei pastori di Canaan (divenuta, poi, Pasqua ebraica) durante la quale venivano distribuite uova che sarebbero poi state divise fra i vari commensali a significare la loro unità e l’unità della vita. Nello stesso tempo, come abbiamo già accennato, quasi tutti i riti pagani Europei avevano luogo in concomitanza con la fine dell’Inverno e avevano nell’uovo il simbolo principe.
La seconda è la relazione uovo-rinascita, di cui ho parlato sopra. Il cristianesimo sostituì un nuovo significato ad un significante già esistente e l’uovo cominciò a rappresentare la fede nell’immortalità e salvezza dell’anima, il ricordo del sacrificio di Cristo e la sua resurrezione anziché la fertilità e la fecondità.
L’intervento della religione cattolica all’interno dell’orizzonte popolare è riscontrabile anche nella Valle dell’Aniene e, modificando il significato dato all’uovo, ha finito per essere una delle due cause della perdita di valore e quindi della quasi scomparsa della tradizione di donare cavallucci e bamboline. Oltre a questi due tipi di dolci, infatti, sono comparse nel corso degli anni anche le colombe, fatte anch’esse di pasta biscottata. Molto probabilmente la doppia valenza attribuita dai contadini alla parola “palommèlla” ha facilitato l’accettazione di questo nuovo simbolo religioso all’interno dell’orizzonte popolare, non riuscendo però a slegarlo dal contesto sessuale in cui era nato. L’altra causa della residualità di una tradizione così lunga è connessa alla funzione sociale che questi doni avevano e, come spesso accade per ogni tradizione contadina, alle modificazioni che sono accorse nella struttura sociale ed economica. In una Valle in cui ormai non si pratica quasi più l’agricoltura e l’allevamento come unici mezzi di sostentamento e in cui le donne hanno progressivamente cambiato la propria posizione in una famiglia non più patriarcale e abbandonato, finalmente, il loro esclusivo compito di produttrici di riproduttori, non ha più senso regalare bamboline o cavallucci e così ci si è adattati a regalare ai bambini le uova di cioccolato confezionate a livello industriale.

Cavallo o Bambola :  nascita del Genere
Dunque, una delle cause della scomparsa di questa tradizione è legata al diverso ruolo che la donna riveste da qualche decennio nella società. L’atto di donare esclusivamente una bambola ad una bambina e un cavallo ad un maschio, negando al piccolo Antonio la gioia di un gioco più bello, era connesso strettamente alla divisione dei ruoli e dei compiti che avevano donne e uomini all’interno della società contadina e patriarcale della Valle dell’Aniene. Prendere l’uno o l’altro equivaleva ad augurarsi da un lato di essere un giorno feconda e garantire quindi la sopravvivenza fisica del gruppo e la continuazione della stirpe paterna; dall’altro di assicurarsi, come gli animali, la salute, la forza e la virilità, sicure garanzie per la sopravvivenza materiale della famiglia e della “razza” o gruppo familiare di appartenenza.
Donare una donna in stato interessante ad una bambina piccola e un cavallo o gallo ad un bambino indicava quindi quale sarebbe stata la condizione necessaria per una vita da “donna ” e da “uomo “. Veniva creata, in sostanza, nella mente del piccolo la prima distinzione tra compiti maschili e compiti femminili, doveri maschili e doveri femminili; in un solo termine, nasceva in lui/lei l’idea di genere. E’ infatti il gruppo di appartenenza che impone le norme relative al genere sotto il peso della morale e che attraverso le relazioni che ha con il bambino struttura il suo processo di autoidentificazione della personalità (7). Questa inculturazione, che potremmo dire coatta, passa per la scelta del nome, dei vestiti, dei giochi ed anche, come nel nostro caso, dei doni pasquali. Si preparano lentamente i figli ad un mondo che sarà condizionato dal concetto di genere.
Ha scritto Simone de Beauvoir:- Una non nasce donna, piuttosto lo diventa…; è la civiltà nel complesso a produrre questa creatura descritta al femminile. Di fatto per gli esseri umani non esiste alcuna femminilità o mascolinità, condizione di uomo o di donna, ma una volta che il genere è stato attribuito,  l’ordine sociale costruisce e fa seguire agli individui regole e aspettative differenziate in tal senso.

Conclusione
Emerge in modo chiaro, dunque, che l’atto del donare bamboline e cavallucci ai bambini e alle bambine, oltre a significare la rinascita della natura e augurare fertilità, fa parte del processo di formazione del genere. La piccola “differenza alla nascita” presente tra uomini e donne è stata, nel tempo, culturalmente accentuata facendo sì che, tramite continue piccole “spinte sociali”, maschi e femmine non solo formassero categorie tra loro nettamente distinte ma addirittura si pensassero diversi e accettassero cavallucci e bamboline perché “robba da ommini e da femmone”.

1 – Questo articolo è stato estratto da una tesina presentata dallo scrivente in occasione del seminario sul “Genere” tenuto dalla dott.ssa Grazia Valenzano presso la cattedra di Storia delle Tradizioni Popolari dell’Università “La Sapienza” di Roma  nell’anno accademico 1999-2000.
2 – Cfr. A. Tacchia, Il passato e il presente – Riti, feste e tradizioni popolari nella Valle dell’Aniene, Bagni di Tivoli,   Tendenze della comunicazione, 1996.
3 – L’ intervista  è stata fatta il 14/6/2000.
4 – Anche nella vicina Ciociaria  per tradizione si regalava  la  “pigna” o “puparèlla”. Rispetto a quella sublacense, però, l’uovo veniva collocato in bocca  anziché nella pancia. Questi dolci sono presenti nella tradizione di altre parti d’Italia, ad esempio in Calabria e in Sicilia e, con altra forma, come quella di un serpente in Sardegna.
5 – L’unica eccezione che si conosce, si riscontra a Pisoniano dove al bambino veniva donato un fucile sempre di pasta e con l’uovo. Qui la bambolina veniva chiamata “pupatta”. Cfr. schede presso il Museo della Civiltà Contadina della valle dell’Aniene di Roviano.
6 – Cfr. J. Blum, (a cura di),  Storia della Civiltà contadina – Il nostro passato dimenticato : sette secoli di vita nelle campagne, Milano, Rizzoli, 1982; P. Manasse, L’uovo di Pasqua – Magia e simbolo, Roma, Fratelli Palombi, 1986.
7 – Cfr. J. Lorber, L’invenzione dei sessi, Milano, Il Saggiatore, 1995.